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Le Guardie del Medioevo: i poliziotti agli albori della storia moderna

Una delle più famose raffigurazioni di una milizia medievale, Bologna, 1400 circa.

Prima di addentrarsi in poche e sparse curiosità sui nostri antenati medievali è necessario porre alcune brevi premesse per cercare di dare un contorno al concetto stesso di Guardie: la polizia, per come la conosciamo, nasce nel 1829 in Inghilterra, ad opera del ministro Robert Peel, e nasce con la creazione di un corpo non militare per gestire l’ordine pubblico interno dopo che l’esercito inglese aveva soppresso nel sangue una serie di rivolte civili, ed esplode nel 1857, anno in cui ogni città inglese viene obbligata per legge a dotarsi di un Corpo di Polizia. Va da sé che, ovviamente, se nel 1829 viene definita “la polizia”, uno dei tratti caratteristici di ogni civiltà è aver avuto un corpo di leggi a delinearne la vita comunitaria e, per forza di cose, alcuni soggetti deputati a garantirne il rispetto: nell’antica Atene questo ruolo era svolto da schiavi, gli arcieri sciiti, nell’impero romano dalle Cohortes Urbane e dai Vigiles, perfino le nazioni nativo americane delle grandi pianure, per molti simbolo di libertà quasi vicina allo stato di natura, avevano una società guerriera che si occupava di garantire l’ordine durante i raduni delle varie tribù, gli akicita.

Un arciere sciita raffigurato in un piatto del Vth secolo AC, i resti di una caserma dei Vigiles a Trastevere, un akicita in una foto di fine ottocento.

Si può dire che le “Guardie” siano sempre state un prodotto derivato dalle necessità e dalla situazione di ogni popolazione e di ogni periodo storico: anche parlare del medioevo, un arco temporale di più di mille anni che si estende per tutta l’Europa e oltre, è difficile, perché le esigenze di polizia di un signore feudale longobardo dell’ottavo secolo erano ovviamente diversissime da quelle di un comune quale Bologna o Firenze nel quindicesimo, o di una nazione quale la Francia o il Regno delle Due Sicilie.

Nel sistema feudale, ogni feudatario aveva in gestione un castello – e le relative campagne, quindi vigne, greggi, armenti ed in generale fattori produttivi – assegnatogli dal signore di rango superiore e di questo territorio aveva la responsabilità, amministrandone la giustizia, versando decime, garantendo la sua partecipazione alle guerre del sovrano mantenendo un numero di armati: non pensiamo però ad eserciti, il singolo signorotto aveva tanti lavoranti, certo, ma di guardie ne manteneva giusto il minimo necessario a garantire l’ordine, eventualmente richiamando alle armi altre figure nel caso fosse necessaria una forte movimentazione di uomini. Nella cultura longobarda i conflitti tra nuclei famigliari, le faide, si risolvevano pagando del denaro in cambio delle offese ricevute o uccidendo chi aveva offeso per primo, e se una faida si allargava diventando qualcosa di ingestibile, ci si riservava del parere del sovrano – o del feudatario di rango più elevato – per dirimere la questione: va da sé che in un sistema del genere contano più gli armati che la singola famiglia può mantenere che l’eventuale esistenza di una “polizia” superiore ai singoli coinvolti, la “polizia” era la forza del nobile di rango più alto che aveva abbastanza potere da imporre la sua soluzione. Nell’impero carolingio – IX secolo – invece, questa “polizia” esisteva, ed erano i missi dominici: dei funzionari nominati dall’Imperatore in persona, spesso un ecclesiastico ed un nobile di fiducia, che avevano il dovere di ispezionare i territori dell’impero ed accertarsi che i feudatari rispettassero le leggi imperiali, dessero la giusta parte di tributi e fossero graditi alla popolazione: i Missi avevano pieni poteri di giudizio e perfino di sequestro dei beni e sospensione dei titoli nobiliari. Istituiti da Carlo Magno nell’802 DC, andarono perdendosi con la disgregazione dell’Impero Carolingio, e già nel Xth secolo si potevano considerare spariti.

In Italia, l’esperienza comunale cambiò radicalmente le carte in tavola rispetto il sistema feudale, già messo alla prova dal progressivo sviluppo delle città e della loro borghesia contrapposto al declino dell’aristocrazia delle campagne: che fosse a seguito delle guerre con l’autorità imperiale, che fosse perché così ricchi da comprarsi le terre e staccarsi dall’aristocrazia papale, che fosse perché sempre stati liberi, comuni e città italiane, ed in particolare nel centro e nord del nostro paese, si guadagnarono una forte indipendenza e iniziarono ad avere statuti propri, e, di conseguenza, la necessità di avere dei propri uomini demandati a farli rispettare.

I Castelli erano, oltre che fortezze, anche residenze e aziende di campagna dalle quali il feudatario gestiva le terre ed i villaggi circostanti non solo dal punto di vista militare. In foto, il Castello di Avio, Trentino.

Non immaginiamoci però delle città organizzate come le vediamo nella storia recente: la città medievale era una realtà sociale divisa, pregna di contrasti tra le famiglie più influenti, di corporazioni di mestieri e di banche, dove ogni fazione aveva spesso e volentieri i propri bravi in stile manzoniano, che magari si ammazzavano per strada, ed in mezzo a tutto questo vi erano anche gli armati comunali, cittadini chiamati alle armi – successivamente anche mercenari provenienti dall’esterno – che fungevano sia come tutori dell’ordine interno che come esercito in caso di mobilitazione, non di rado radunati ed equipaggiati dalla fazione in quel momento detentrice del potere.

Già nel XI e XII secolo la “militia” non rappresentava gli armati a servizio del comune, ma bensì una precisa classe sociale di cavalieri che, armati di tutto punto e con un personale seguito di armigeri, abitavano nelle diverse città italiane e si dedicavano all’arte della guerra per proprio conto o al soldo di questo o quel signore piuttosto che altra città: va da sè che nei momenti di pace i milites usassero la loro influenza militare per imporsi sui governi locali o addirittura per esser loro i padroni, scontrandosi per le strade delle città tra famiglie e loro affiliati cercando di imporsi gli uni sugli altri, creando una oligarchia impermeabile alle influenze delle altre caste sociali, fossero mercanti, borghesi o semplici cittadini, in una sorta di feudalesimo dove il grande proprietario non viveva in un castello nelle campagne, ma in un palazzo in piena città.

Un armato con gambeson, spada ed elmo di tipo cervelliera, da un testo del 1414 custodito nella Biblioteca Vaticana.

L’archivio storico di Bologna ci dice qualcosa sull’armamento e la vestizione di queste guardie a cavallo tra il XIV e il XV secolo: dimentichiamo una divisa come la concepiamo oggi ed immaginiamo piuttosto una semplice tunica, da indossare sopra eventuali protezioni o altri abiti, con indicato lo stemma del comune di servizio, detta sorcotta o tabarda. L’armamento era a carico del comune o più spesso di corporazioni di mestieri afferenti la sfera della produzione di armi e armature, e consisteva in una tunica imbottita di lana, cotone, fibre grezze, detta gambeson, in un elmo a protezione della testa, una daga piuttosto che una spada, l’immancabile lancia e, come arma da lancio, la già citata balestra, strumento di utilizzo più immediato di un arco, che invece richiedeva un addestramento costante. I balestrieri, nel caso del Comune di Genova, potevano addirittura essere inviati come mercenari a combattere per altre città, a condizione però che la missione fosse approvata dal comune e che ad esso andasse il pagamento del servizio reso. Nel 1378, a Firenze, durante la rivolta dei Ciompi, per mantenere l’ordine dopo una prima mediazione tra le fazioni, vennero arruolati 1000 balestrieri.

Giovanni Melappioni, in un suo articolo, parla dei berrovieri, gli sgherri che accompagnano i capitani – a Firenze, ad esempio, quando si tratta di convocare cittadini dinnanzi i priori – più come guardie del signore che come effettivi agenti di polizia, ma comunque non come soldati pensati solo ad un contesto bellico e da indirizzare contro un nemico esterno, ma anzi più vicini a compiti di ordine interno, pur se spesso reclutati da fuori.

A Trento, realtà caratterizzata da una forte dipendenza imperiale, scopriamo da una ricerca commissionata proprio dal Corpo di Polizia Locale che fu vietato ai principi vescovi, detentori del potere, di mantenere un proprio esercito, lasciando l’ordine pubblico nelle mani dei capitani dipendenti dal governo centrale, anche se alcuni documenti della metà del 1300 attestano la presenza di armati al seguito dei maggiorenti cittadini, questi devono immaginarsi come guardie del corpo piuttosto che guardie della città, che appariranno solo un secolo dopo, alla fine del ‘400, quando verrà data ai principi vescovi la competenza della custodia delle porte della città e successivamente – 1511- delle imposte.

Dai lavori dei ricercatori Marco Salvador ed Elena Righetto si evince che La Repubblica di Venezia, più che un sistema di polizia, aveva la caratteristica di avere decine e decine di magistrature che si occupavano di tutelare non solo la vita civile, ma anche l’igiene pubblica, la manutenzione delle strade, degli edifici, dei canali eccetera ed ogni magistrato poteva avvalersi di uomini di fiducia cui dava mandato di far rispettare le sue indicazioni. Le magistrature con competenza tipicamente di polizia erano la Quarantia Criminal e il collegio dei Signori della Notte, che si avvalevano di “sbirri” per il mantenimento dell’ordine pubblico e la risoluzione delle indagini.

Tre Magistrati – Avogadori – veneziani sono testimoni dell’Annunciazione in quest’opera del Tintoretto (1575).

A Milano, arrivando però al 1635, abbiamo la prima formazione di una unità permanente pensata specificatamente per il mantenimento dell’ordine interno: fondata dal governatore don Diego Felipez de Guzman e rimasta pressoché inalterata fino al 1796, la Milizia si componeva di membri volontari arruolati tra i cittadini di età compresa tra i 18 ed i 60 anni, che potevano riprendere servizio in caso di necessità ed andando solo eventualmente a formare un piccolo esercito cittadino.

E chi comandava questi eserciti locali, queste Guardie? Anche qui, ogni città ed ogni periodo fanno una storia a sé.

Per uno dei casi più interessanti torniamo a Firenze nella già citata rivolta dei Ciompi, quella dell’arruolamento dei mille balestrieri, che, come accennato, arrivarono dopo una prima mediazione tra le corporazioni del maggior consiglio ed appunto i ciompi, rappresentanti dei ceti inferiori (semplificando molto): bene, prima di questa mediazione successe che i priori chiamassero un certo Ser Nuto di Città di Castello, nominandolo bargello, ovvero capo delle guardie: era un momento particolarmente teso della politica fiorentina, con i ceti popolari che mormoravano alla rivolta contro i priori stessi per essere ammessi anche loro al governo. Ser Nuto fa arrestare e torturare diversi operai per far loro confessare quando ci sarà la rivolta. La buona notizia – più o meno – è che confessano. La cattiva è che la rivolta era in previsione per la mattina dopo la confessione, quindi non c’è tempo di organizzarsi e sedarla. A questo punto i priori, ovvero quelli che avevano chiamato Ser Nuto, liberano i prigionieri e accettano le condizioni dei popolani ammettendo la creazione di tre nuove corporazioni formate dai lavoratori delle classi meno abbienti – quelle che in seguito arruoleranno i famosi mille balestrieri – dando di fatto a Ser Nuto le colpe delle torture e del ritrovamento di diversi cappi “pronti ad essere usati sui cittadini” dentro palazzo Vecchio, e portando così al suo linciaggio dalla folla.

Una rivolta popolare da una miniatura francese di fine 1300.

Al di là della vicenda in specie, la nomina a Podestà di Vicenza, nel 1206, del milanese Guglielmo da Pusterla, per rimettere ordine tra le faide delle famiglie locali, ci dimostra che quello di Ser Nuto non era un caso isolato di chiamata di un professionista esterno per la gestione dell’ordine pubblico di un comune, ma anzi rappresentava una prassi consolidata già un secolo e mezzo prima. Nella realtà veneziana le ricerche ci dicono che a prendere le redini delle varie magistrature di cui si è parlato nel paragrafo precedente erano invece nobili e politici locali, per i quali avere la responsabilità di una magistratura rappresentava una sorta di trampolino per una carriera politica o amministrativa, e ci dicono anche che le magistrature di Polizia non erano tra quelle più desiderate: tante grane, molto esposte, per avere in cambio raramente delle gratificazioni.

Nel diversissimo – rispetto quello italiano del ‘300 – contesto dell’Olanda del XVII secolo, spicca la figura di Francis Cocq, farmacista che fondò e mantenne una compagnia di milizia al servizio della città di Amsterdam, di cui poi divenne sindaco. La compagnia della Guardia Civica di Cocq è protagonista di uno dei capolavori del pittore fiammingo Rembrandt. L’Enciclopedia Storica Britannica ci dice che nell’Inghilterra feudale il capo delle guardie era lo shyre reeve, il “funzionario di contea”, lo sceriffo, nominato dal sovrano come responsabile degli affari pubblici nelle varie provincie.

La compagnia di Cocq ne La Ronda di Notte di Rembrandt, 1642.

Guardie, sbirri, conestabili o altro, le Guardie hanno sempre avuto mille nomi, mille giurisdizioni e mille comandanti.

La Storia della Polizia è una difficile storia che amalgama la necessità della gestione della pace sociale ad una realtà fatta spesso di servilismo a sistemi e regimi che hanno fatto compiere alle guardie azioni votate più al mantenimento degli status quo che ad una vera tutela degli interessi comuni: più governo sociale che pace sociale: questo si è visto in decine di occasioni anche – e forse soprattutto – dopo la nascita della polizia moderna, con le grandi repressioni dei movimenti dei lavoratori, dei movimenti legati alle minoranze, dei movimenti per i diritti, in una sostanziale e continua avversione ed oppressione di qualsiasi fenomeno che potesse cambiare gli equilibri. Per secoli, purtroppo, siamo stati il braccio armato di governi e sistemi che campavano sullo sfruttamento dei più deboli, degli ultimi, e, allo stesso tempo, della maggior parte della società. E’ una cosa pacifica, conclamata, con cui dobbiamo fare i conti con la storia e la nostra coscienza, ma che ci insegna anche che proprio per non ripetere gli errori di quel passato, essere Guardie è anche essere qualcosa di più dei cani di qualcuno, per quanto a molti piaccia essere indicati come “cani pastori” di un gregge che sarebbe la popolazione.

Eppure, nonostante questa funzione conservatrice, la polizia è anche stata fatta di persone pregne di ideali di protezione e di servizio, pronte a rischiare se stessi per la salvezza degli altri, fino anche a rinnegare i governi stessi che li avevano arruolati e mettersi dalla parte del popolo: è successo alla Bastiglia nel 1789, e di nuovo nella Guerra Partigiana dopo l’8 settembre 1943, è successo dopo la morte di George Floyd e potrebbe succedere di nuovo ogni qual volta che gli interessi del potere andassero in maniera esasperata contro quelli del popolo. Perché noi, le Guardie, siamo di più e di meglio che meri esecutori: la storia ci dice quanto sia difficile il nostro lavoro, quanto sia dura restare coerenti ai valori di Giustizia e Umanità, che dovrebbero essere i nostri fari, quando esistono leggi e attività che ne sono l’opposto. Ci ricorda che Guardie è al di là della divisa, e che possono esistere leggi indegne, e Guardie che sbagliano: la nostra difficoltà è saper essere superiori a tutto questo e approcciarci ad ogni persona e situazione con il solo fine di essere tutori della LIBERTÀ’.

Le Guardie Cittadine di Parigi si uniscono al popolo causando la Presa della Bastiglia, nel 1789.

La Storia ci dice che è Libertà quel che l’umanità va cercando, ed essendo noi i tutori della pace nelle società, è nostro dovere garantirle di essere libera.

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