Sono state confermate dalla Corte di Cassazione le condanne a 18 mesi ciascuno – ridotte dai 20 del primo grado – già stabilite dalla Corte d’Appello torinese nei confronti di 3 colleghi del Nucleo Servizi Mirati della Polizia Locale di Torino e allo psichiatra che aveva in cura Andrea Soldi, 45 anni, morto nel 2015 a seguito di un TSO.
Quella di Andrea Soldi fu una “brutta storia di Guardie” che ci invita a riflettere non tanto, come leggo nelle reazioni sul web a “farci dire dalla Cassazione come si lavora” o “allora da domani rifiutiamoci di lavorare”, quanto su cosa si possa e si debba fare per evitare che succeda di nuovo: siamo seri, in quale paese civile una persona può morire su una barella dopo un intervento di polizia senza che ci sia quantomeno un’indagine per stabilire eventuali responsabilità? In quale paese civile si può accettare che la polizia abbia una sorta di impunibilità se qualcuno gli muore sotto le mani?
Ragioniamo invece proprio sulla sentenza, per prima: la condanna è per omicidio colposo, e tutti noi sappiamo cosa voglia dire. Rifiutiamo quindi certe letture giornalistiche che accostano il tragico fato di Andrea Soldi a quello del Floyd americano, una tesi vergognosa, buona sola a gettarci ulteriore fango addosso, che parifica una morte non voluta da nessuno ad un omicidio violento e brutale senza fare alcun ragionamento e senza dare alcun contesto a nessuno dei due fatti.
Notiamo anche che la condanna non va solo alle Guardie, ma anche al medico psichiatra presente che delle Guardie ha chiesto l’intervento: viene quindi sottolineato che la colpa non è solo degli operatori di polizia – ricordo un articolo dell’epoca in cui un giornalista sosteneva “se dici a tre poliziotti di fermare una persona, loro fanno i poliziotti e lo ammanettano, sei tu medico che devi sapere se il tuo paziente può sopportare un intervento simile” – ma che anche la parte medica non può sempre nascondersi dietro gli operatori stessi.
L’intervento in sé lo conosciamo dai giornali: Soldi, in cura da anni, da mesi non prendeva le medicine prescritte e passava le sue giornate seduto su una panchina poi diventata simbolo di quanto successo. Lo psichiatra firma il tso e vengono inviate sul posto una pattuglia di un nucleo specificatamente creato per l’esecuzione di questo tipo di interventi, un’ambulanza e lo stesso medico, ed è quest’ultimo a chiedere l’intervento coattivo agli agenti. Si parla di prese al collo per far perdere i sensi e vincere la resistenza della persona e di assicurazione alla barella a pancia in giù e con i polsi ammanettati: oggi, chiunque frequenta un corso di tecniche operative o di trasporto sanitario sa che sia l’una che l’altra cosa sono considerate sbagliatissime.

Da questa condanna qualcosa va imparato non direttamente dai condannati, quanto dall’intero sistema che ruota attorno l’esecuzione dei TSO e degli interventi collegati, da sempre considerati tra i più rischiosi da porre in essere, sia per gli operatori che per il paziente, paziente che, ricordiamo, è un malato e non un criminale, tanto che in alcune realtà ancora si sconsiglia l’utilizzo delle manette nel caso di contenimento (ed è sbagliatissimo, le manette vanno usate, ma usate bene). Partiamo proprio dal nostro intervento: la Polizia Locale, essenzialmente la forza che per definizione ha in carico l’intervento, è sul posto per assicurare che l’ordinanza sia rispettata e che non sia in pericolo l’incolumità di nessuno. Questo significa, si badi bene, che l’intervento coattivo di polizia si dovrebbe verificare nel caso che il paziente tenti di aggredire i medici, i soccorritori, di nuocere a se stesso ed eventualmente inizi a danneggiare la zona di intervento rischiando così di far male a qualcuno.
Quante volte, invece, vediamo i medici che, dopo un modesto tentativo di approccio, si spazientiscono ed ordinano il trasporto coattivo di persone che mettono in atto una mera resistenza passiva? Beh, partiamo da questo: noi siamo agenti di polizia ed interveniamo se qualcuno è in pericolo, non se qualche professionista non vuole fare tardi a cena. Servono tre ore per convincere una persona a salire in ambulanza? Le aspettiamo noi, le aspetta il medico, le aspettano i colleghi soccorritori: non sta a me sapere se la costituzione fisica di una persona è in grado di sopportare l’invasività di un intervento coattivo, è il medico a dover sapere quali stimoli può reggere il suo paziente senza andare incontro a gravi conseguenze e se il medico, pur sapendo di eventuali fragilità, ordina alla polizia di intervenire coattivamente allora forse quello che sta sbagliando è il medico e non gli operatori. Gli operatori eventualmente sbaglieranno se nell’effettuare l’intervento vi saranno errori tecnico operativi, e sarà interessante leggere le motivazioni della sentenza proprio per capire se viene fatto questo importantissimo distinguo.

La persona diventa violenta, minaccia se stessa, sta distruggendo un ambulatorio lanciando forbici, siringhe e materiale sanitario dalla finestra? Allora la situazione cambia e l’intervento di polizia diventa inderogabile, per il resto, con un malato si parla, e troppe volte vedo medici che mandano a parlarci noi invece di presenziare loro, ancor prima di chiedere un eventuale uso della forza.
La tragica vicenda di Torino non ci serve per piagnucolare che “non dobbiamo fare tso” o che, come sempre “tutti ci vogliono male”: ci serve per pretendere che certi punti fermi del mestiere di Guardia e del mestiere di Medico siano rispettati proprio vista la delicatezza dell’intervento. Ci serve che la formazione sia continua e gli strumenti siano adeguati: non può esistere che una pattuglia comandata al controllo appiedato venga dirottata su un intervento del genere senza che gli agenti siano dotati dei dpi necessari al suo espletamento, magari portati sul posto da una seconda pattuglia, sperando che nel mentre non accada niente alla prima. Questo non vuol dire, si badi bene, che se si incontra una persona in escandescenza che aggredisce terzi o distrugge l’arredo urbano si debba stare a guardare: si tratta di reati e si interviene, punto. Vuol dire però che se si è nel contesto di un’ordinanza di TSO, quindi in un momento in cui si è consapevoli che la persona da trattare è malata e non criminale, è doveroso che vi sia il personale necessario – quindi anche i medici – e i necessari dpi a garantire proprio la sicurezza del malato – gli scudi da tso, per dirne uno – che permettano di contenerlo senza dover usare le medesime procedure che si userebbero su un criminale intento a massacrare civili per strada. In un intervento MEDICO deve essere il medico ad assumersi la responsabilità di volere l’intervento coattivo di polizia, e la polizia, se riceve l’ordine di agire su una persona che in realtà non sta facendo assolutamente niente a nessuno, dovrebbe rifiutarsi di intervenire o quantomeno richiederne l’ordine scritto, sottolineando poi tale circostanza nell’annotazione: andare allo sbaraglio per “non far fare tardi” a noi stessi o qualcuno è abbastanza fuori di ogni logica, oltre che piuttosto cinico se si pensa che di fronte abbiamo una persona bisognosa di cure e quando mai una Guardia penserebbe di “non voler fare tardi” per non dare una mano a qualcuno in difficoltà?

Come tutte le attività di polizia, il TSO abbisogna di presupposti certi e di protocolli di intesa – attenzione, non sto dicendo che servono decaloghi da seguire passo passo, sappiamo tutti che su strada le cose non vanno mai come su carta – con le ASL che chiariscano che l’intervento coattivo deve essere limitato al pericolo per l’incolumità dei presenti, abbisogna di reparti ed equipaggiamenti ad hoc e soprattutto necessita di un cambio di mentalità globale che smetta di vedere i malati psichiatrici come un fastidio per la società, società che, ricordiamo, del loro disagio è prima colpevole.
Questo è un discorso troppo grande per le Guardie Cittadine, ed anche per i colleghi del soccorso e gli psichiatri: è un discorso che dovrebbe fare la politica, che dovrebbero fare le associazioni a tutela dei più deboli, ma per le quali è spesso più facile gridare al mostro in divisa piuttosto che attaccare l’apparato che quella divisa l’ha mandata ad operare in un determinato contesto sociale e personale.
Ma è un discorso che anche noi Guardie dobbiamo avere il coraggio di fare.