A Milano e Biella, in due giorni, sono morte due persone colpite dai proiettili delle Guardie. Si trattava di persone in preda a forte alterazione, armate di coltelli, che si erano scagliate sugli agenti operanti, ferendoli anche gravemente. L’arma di servizio, che non è lì “per deterrenza” o “per fare scena”, come dice qualcuno, serve esattamente a questo: salvare la vita degli operatori quando l’unica scelta è tra la loro, o quella di un civile, e quella dell’aggressore, ed il suo uso non è il mero tirare il grilletto, ma tutti gli atti che ne richiedano la manomissione per “vincere una resistenza o respingere una violenza”, come recita il Codice: se estraggo per intimare l’alt ad un delinquente sto utilizzando l’arma nello stesso momento in cui la tocco. Sparare è solo una parte dell’uso e del maneggio di un’arma e usare l’arma è molto diverso da sparare.

Era una premessa necessaria per andare a comprendere che la notizia che leggiamo sui giornali è soltanto il termine di un lungo processo che dura l’intero intervento e che valutare o peggio presumere qualcosa sull’operato dei colleghi, purtroppo costretti a fare uso della forza letale, sulla base di articoli scritti da giornalisti che di ingaggio armato capiscono quanto io di editoria, è assolutamente ingiusto in primis nei confronti dei colleghi stessi.
Trovo assurdo focalizzare il problema sull’agente che, applicando i protocolli sui quali non abbiamo motivo di dubitare – e conoscendo bene almeno in forma teorica le complicazioni di utilizzarli in contesti dove in pochi istanti ti giochi la vita – è costretto a fare uso della forza letale, addirittura spesso preferendo avvallare l’ipotesi del colpo “partito” piuttosto che di un cosciente utilizzo dello strumento: come a dire, preferiamo dare l’immagine di operatori improvvisati cui partono colpi piuttosto che riconoscere l’esistenza e l’applicazione di protocolli formativi che giungono ovviamente fino al momento in cui il grilletto va effettivamente tirato.
La verità è che l’asticella si sta alzando pericolosamente: a Bresso, qualche mese fa, è mancato pochissimo che un collega ci lasciasse la vita. Oggi stesso, a Brà, provincia di Cuneo, una donna è stata faticosamente disarmata mentre minacciava gli astanti con un coltello di 10 cm, una lama che uccide o crea danni permanenti quanto una pistola, solo molto più facile da trovare e molto più brutale nel suo utilizzo.

E così, mentre le tensioni sociali salgono e la preparazione delle Guardie viene fortemente minata dalle restrizioni imposte per il controllo della pandemia, oggi come non mai risulta importante la piena dotazione e l’addestramento all’uso del singolo DPI, supporto informatico o strumento di difesa, letale o meno. Si è parlato a lungo di taser: oggi siamo in attesa del termine della nuova gara d’appalto dopo il fallimento in extremis dell’ultima. La mia paura verso il taser però è la mania italiana dell’uomo forte, o nel caso, dell’oggetto universale, che risolva i problemi: diciamolo subito, non sarà il taser a risolvere i problemi e a rendere un brutto ricordo l’uso delle armi da parte della polizia. Il taser non è una bacchetta magica, può fallire, e il suo fallimento scopre in maniera pericolosissima l’agente che, fallito il colpo, si trova senza difese a dover affrontare l’aggressore ora più che mai intenzionato a portare a fondo l’attacco. Non sapremo mai se con un taser le due tragedie di questi giorni si sarebbero risolte senza l’uso dell’arma o se magari non sarebbe finito tragicamente l’arresto della donna a Brà. Quello che non voglio e che temo è che il taser,o altri strumenti di nuova generazione come il bola-wrap, saranno di nuovo causa di attacchi agli operatori, che saranno accusati di incapacità e mancata formazione ad ogni malfunzionamento e di violenza o abuso di potere ad ogni esito più grave del previsto al suo utilizzo.
Quello della formazione delle Forze di Polizia è un argomento che interessa soprattutto dal punto di vista economico a chi commercializza gli strumenti o appalta i corsi di formazione, da quello giuridico a chi si crea una carriera di avvocato o di magistrato difendendo o attaccando le Guardie per riempire riviste di settore coi propri articoli garantisti o securitari in base la risonanza mediatica del singolo caso, da quello sociale a chi ha bisogno di usare le Guardie come parafulmini per il male del mondo, da quello politico a chi invece le usa come marionette elettorali per sbandierare una sicurezza che dovrebbe invece essere bipartisan e prescindere da tanti aspetti presi invece singolarmente in considerazione quando comoda.

Che noi Guardie si torni a casa intere, senza dover convivere con l’essere stati costretti a togliere una vita o anche solo a ingaggiare a fuoco un sospetto e senza dover subire per questo anni di tribolazioni giudiziaria, in sostanza, interessa solo a noi. Ed a noi deve interessare essere preparati e volerci preparare, a qualsiasi evento, a qualsiasi reazione, perchè siamo quelli che, “Se piove merda, e qualcuno deve metterci un ombrello…E chi chiamerai?!”.
Ed a noi stessi si deve essere sempre sicuri che quel colpo di pistola, ma anche quel dardo, quella nuvola di peperoncino, quel colpo di distanziatore, perfino quella singola presa o anche il semplice conflitto risolto a parole seguano sempre una formazione, un concetto, una preparazione fatta a monte dell’evento per essere in grado di affrontarlo a sangue freddo. Anche se poi qualcuno che si crederà di sapere tutto di noi andrà a dire che “è partito”.
Mi sento vicino ai colleghi coinvolti nei duri fatti di questi giorni e, sperando che tali scenari non diventino la norma, ma temendo diventino quantomeno un’eventualità che tutti dobbiamo iniziare a valutare come “possibile”, oggi più che mai, chiudo questo pezzo con “occhi aperti la fuori”.
