Pochi oggi sanno che la Polizia Locale partecipa al contrasto della malavita con aliquote di Polizia Giudiziaria nelle procure o con una lotta quotidiana in territorio corrosi dalla dominazione della mafia, ma per parlare di questa particolare attività bisogna, come sempre, fare un passo indietro nel tempo, perché i “vigili antimafia” non sono nulla di inventato oggigiorno, e indagare su attività gestite dalla mafia, non è un “cercarsi rogne che non ci competono” o “giocare ai poliziotti veri” o altri epiteti vergognosi che leggo quotidianamente sui social, a volte anche da parte di colleghi incapaci di vedere oltre un orario su un disco orario o un cane senza guinzaglio, ma risulta una vera e propria attività istituzionale della Polizia Locale come lo è di tutte le Forze di Polizia dello Stato. Un’attività antimafia che, attenzione, non è da intendersi come il “semplice” vivere ed operare in territori ad alta infiltrazione criminale, con tutte le difficoltà ed i rischi che ciò comporta, ma da intendere proprio come un’attiva partecipazione ad indagini che di quelle infiltrazioni vanno a colpire gli interessi.

Il percorso di A me le Guardie per parlare di Polizia Locale e antimafia inizia nel gelo dell’hinterland milanese nel gennaio del 1977, quando ignoti abbattono a colpi di pistola il Vigile Paolo Ruggeri a Paderno Dugnano. Gli esecutori, legati alla banda di Vallanzasca, sapevano che l’agente collaborava con la Questura milanese nel raccogliere informazioni e prove contro gli affiliati ed i fiancheggiatori che proteggevano il potente gruppo criminale. L’anno successivo, in piena estate, nella torrida provincia di Palermo, un altro Vigile, Salvatore Castelbuono, pagherà con la vita la sua attività a fianco all’Autorità Giudiziaria in contrasto gli interessi di alcuni clan mafiosi. Qualche anno più tardi, nel 1985, la ‘ndrangheta non perdonerà a Giuseppe Macheda, Vigile Urbano di Reggio Calabria, la sua attività anti abusivismo edilizio, che allora come oggi andava a colpire uno dei punti focali del riciclaggio di denaro oltre che a creare enormi introiti alla cosca grazie sia lo sfruttamento dei lavoratori che l’elusione delle imposte di costruzione: il giovane agente verrà ucciso a sangue freddo un killer dopo aver tentato di portare alla luce i loschi affari degli ancora impuniti mandanti.
Gli eredi di quei colleghi morti sotto il fuoco della criminalità organizzata portano avanti la loro battaglia in tutto il paese. Tutti ricordiamo Michele Liguori, morto ad Acerra a causa dei tumori contratti dai fumi velenosi dei roghi di rifiuti tossici, l’irreprensibile “vigile con la barba”, come veniva definito nelle intercettazioni dei mafiosi. Grazie al suo sacrificio, oggi, in Terra dei Fuochi, tra Napoli e Caserta, dove i clan bruciano intere discariche abusive nelle quali, oltre a capitalizzare introiti grazie al lavoro nero ed allo stoccaggio illecito di rifiuti per conto di aziende senza scrupoli, vengono fatte sparire o spostate autovetture rubate, cannibalizzate, contrabbando di pezzi di ricambio ed altre attività criminali, le Polizie Locali si sono unite per combattere assieme. La prefettura e la magistratura hanno infatti messo diversi comandi sotto comandanti unici ed affiancato alle Polizie Locali i militari dell’esercito per permettere un controllo del territorio più capillare. Comandanti ed agenti quotidianamente scoprono nuove discariche, sequestrano terreni, bloccano trasporti di rifiuti e mezzi di provenienza illecita, denunciando decine di persone. Un’attività che ha portato minacce di morte e ritorsioni contro molti colleghi, chi vedendosi recapitare in Comando buste con proiettili, chi trovandosi danneggiati i veicoli di servizio e personali.

Dalla Campania saliamo fino a Roma, una città difficile, dove le Guardie Cittadine, da qualche anno, fanno tremare il potente clan Casamonica. Origini diverse, criminalità diversa, ma uguali metodi mafiosi, uguale presunzione di impunibilità, uguale ostentazione di sicumera e potere in sfregio allo Stato. Eppure le Guardie Cittadine romane hanno espugnato quelle che dei Casamonica erano le regge. In 600 sono entrati nelle case dove dormivano i boss della criminalità romana e li hanno scacciati, fotosegnalati, denunciati per occupazione e costruzione abusiva. Hanno piantonato le ville per giorni nonostante le ripetute minacce di attacchi armati ed attentati, fino al giorno in cui le ruspe hanno abbattuto la Bastiglia della malavita capitolina.
L’abusivismo edilizio ed i reati ambientali sono notoriamente materie di primaria importanza per la Polizia Locale, ed è normale che tali interventi, quando fatti con metodo, coscienza e senza guardare in faccia a nessuno, vadano a coinvolgere anche gli affari di clan senza scrupoli. Ne sa qualcosa il “Boss della Stazione di Mestre”, il cinese Keke Pan, arrestato nel 2012 dopo una spettacolare maxi operazione interforze, per aver fornito false residenze e contratti di lavoro a diversi suoi connazionali, oltre che per diverse irregolarità nelle sue attività commerciali: l’indagine, iniziata dalla Polizia Locale veneziana, ha permesso di ricostruire le complesse attività criminali del boss, i cui tentacoli andavano ad unirsi a quelli degli affiliati della mafia cinese di Prato, sui quali si è poi sviluppato un ulteriore filone di indagini.
Di minore dimensioni, ma sicuramente riconducibili a sistemi mafiosi di riduzione in schiavitù, sono le indagini delle Guardie Cittadine della provincia di Brescia e della Guardia di Finanza di Trento avvenute nel 2017 contro il fenomeno del caporalato nei campi, che in quei territori vede coinvolti soprattutto lavoratori irregolari di origine indiana sfruttati da connazionali privi di scrupoli con la complicità di imprenditori agricoli italiani che più che volentieri fanno finta di non vedere le condizioni di chi lavora nei loro campi, oltre ovviamente a non fornirli di alcun tipo di contratto o retribuzione. L’attività ha avuto inizio da un controllo stradale della Polizia Locale dell’Alto Garda, durante il quale, a bordo di due furgoncini, sono stati trovati 25 lavoratori stranieri in pessime condizioni igenico sanitarie. Torniamo a Roma, nel 2018, per un’altra storia di sfruttamento, questa volta di ragazze avviate alla prostituzione, da parte di un gruppo affiliato alla malavita nigeriana, bloccato dagli agenti della Polizia Locale di Roma Capitale e che ha portato all’arresto degli sfruttatori, il sequestro di una vera e propria casa di appuntamenti ed il salvataggio delle ragazze, avviate in seguito a percorsi di recupero ed integrazione. Oltre le botte, la mafia nigeriana non si faceva mancare l’uso della magia nera per terrorizzare le proprie vittime, convinte di essere sotto qualche maledizione Voodo che le avrebbe punite nel momento in cui avessero tradito il clan.

Parlando di mafia nigeriana, è stata la Polizia Municipale di Torino, in particolar modo il nucleo antitratta istituito presso la Procura della Repubblica, a permettere di stroncare con una serie di arresti nel luglio del 2019, in tutta Italia, il nascente clan Maphyte. Violenta e spregiudicata, la mafia nigeriana offre un vero e proprio “stato nello stato” fatto di minacce, intimidazioni, sfruttamento ed attività criminali ai propri affiliati, spesso costretti per timore di ritorsioni anche sulle lontane famiglie ad eseguire gli ordini dei boss e dei loro scagnozzi. Focalizzati su tratta di esseri umani, spaccio all’ingrosso, sfruttamento della prostituzione e caratterizzati da violenti riti iniziatici e punitivi per coloro che infrangono le regole dell’organizzazione, quasi una setta, i clan nigeriani sono un tipo di malavita piuttosto recente nella nostra penisola. Le indagini delle Guardie Cittadine torinesi, che hanno poi coinvolto la Squadra Mobile del capoluogo piemontese e quella di Bologna, portando a decine di arresti in tutto il nord – cui hanno partecipato anche gli agenti della Locale torinese – sono partite grazie l’intercettazione, in un pacco spedito dalla Nigeria agli affiliati in Italia, della Bibbia Verde, un vero e proprio decalogo in cui venivano descritte non solo le regole, le punizioni e le attività del clan, ma anche i nomi in codice con cui venivano identificati gli affari criminali ed i membri dell’organizzazione. Falso, rapina, traffico di stupefacenti, lesioni e associazione di stampo mafioso i reati contestati agli arrestati, con richieste di condanne tra i 5 e gli 11 anni.
