Già dai primi di dicembre, l’Etna aveva manifestato visibilmente una decisa “vivacità”.
Getti di lava dalle “bocche” sommitali, colate verso la lunare valle del Bove (antica sede del Vulcano primordiale, collassato su sé stesso e con ampia devastazione di tutto quanto attorno nel raggio di centinaia e centinaia di chilometri), qualche minore emissione di gas, cenere e lapilli.
Nulla che non rientrasse nella straordinaria spettacolarità che qui è ordinaria quotidianità. Nulla che non fosse “ammirevole” da chi qui vive e lavora. Nulla che non mandasse in estasi i turisti, con gran piacere di commercianti e trasportatori, di cui taluni addirittura in regola.
Poi il brusco cambio di umore nella giornata del 24 di dicembre, con una scossa decisa, “a tradimento”, che smantella l’illusione di quello spettacolo da cartolina patinata, di quel fuoco e quella luce che quasi ci attrae, a che ora mostrava la sua vera natura, come la luce delle lampade incandescenti che attira le falene verso il loro triste destino.
Un boato cupo, secco, che seppur già sentito sin troppe volte e ben noto, sempre sorprende e raggela … seguito da una densa emissione di gas e sabbia vulcanica che in pochi minuti riempie il cielo e poi, simile a polverosa nebbia, cala giù, più giù, sino alle strade ed infine quasi invisibilmente, su di noi e dentro di noi, con sottile insidia quasi inavvertita, ma duratura, con la sua tagliente natura vitrea che si incorpora nelle nostre cornee e nei nostri polmoni.
Ora l’eruzione ed i tremori non sono più spettacolo bello per turisti, ma timore e pericolo per tutti. Inizia lo sciame sismico, con la Terra che “balla” assieme ad ogni cosa che vi sia poggiato. Gea ed Efesto si arrendono a Poseidone e uniscono le forze per buttar giù i pretenziosi, giovani e fragili emidei che gli umani hanno stoltamente preteso di erigere a nuovo scudo contro terremoti e forze arcane.
Si prosegue, quasi rassegnati. Si prosegue con gli inganni salvifici della nostra mente che vuole rasserenarsi e cataloga come routinario quello che routine non è.
Ma a togliere ogni fragile illusione ci pensa la Notte tra il 25 ed il 26, quando alle 3.19 la terra si dimena, scuote sé stessa, assieme a case, strade e letti, frantumando sonno e cose, aggiungendo tremore alla già tremante umanità nel raggio di chilometri. Un colpo secco, “trarimintuso” come diremmo dalle nostre parti per indicare un qualcosa tanto inaspettata quanto sudbola. Un colpo che frantuma l’illusorio patto di convivenza unilateralmente immaginato. un colpo che spacca la routine di sussulti sciamanti che non oltrepassano i 3° di magnitudo e irrompe brutalmente coi suoi 4,8°, ricordandoci che siamo ospiti di una Terra bifronte, terribilmente bella e bellamente terribile.
In perfetta sincronia, mi sveglio con migliaia di altri, scosso nel corpo e nella mente, mentre tutto intorno a me trema e ondeggia per interminabili secondi.
Mi guardo attorno e lo sguardo corre ai miei cari. Ci sono. Ci siamo tutti. Il tremore fisico smette ma continua la vibrazione innescata nelle nostre menti, risonanti come in presenza di un potente “la” emesso dal diapason.
Calma… Torniamo calmi.
Imponiamoci la calma. Contro il caos che l’istinto vorrebbe scatenare. Ci alziamo ed ancor prima di verificare danni guardiamo i nostri borsoni che erano già pronti da giorni per un timore che prima sembrava eccessivo e che ora non lo è più. Pur sapendo che sono a post ed hanno tutto lo stretto indispensabile, ognuno di noi, stordito e contemporaneamente lucido dalla carica di adrenalina, controlla il “suo unico” borsone. Non io, che ne controllo due.
Inizio con quello personale, con i documenti, il ricambio più coperta e tuta impermeabile, una bottiglia di acqua, soldi e quelle due cose di valore non depositate nelle cassette bancarie, le medicine per tutti, il necessario per le pulizie personali e, infine (quasi) ogni supporto immaginabile per telefoni, torce e altre tecno-diavolerie.
Proseguo con quello di lavoro, con uniforme, distintivo, manette e pistola, radio-trasmettitore, altre torce di emergenza a luce fissa ed intermittente (una arancione ben visibile a distanza, altra a luce rosso-blu “police”), assieme ad altre cose che possono servire in fase di emergenza, per prestare soccorso e dare sicurezza. Aggiungo le caramelle che già una volta mi sono servite per rassicurare un bambino piangente, ancora in auto da cui non voleva uscire dopo un incidente stradale. In fondo solo qualche grammo di roba in più, ma indispensabile per non perdere noi, e non far dimenticare agli altri, l’Uomo che c’è sempre dentro l’uniforme.
Mi verso l’ennesimo caffè, mi sento con gli altri del Comando. Ci si scambiano le prime notizie, si concorda il da farsi. Sono quasi pronto ad andare in servizio, a dispetto di ogni turno di riposo e di reperibilità.
Così guardo i miei cari e simulo una sicurezza ed una forza che non ho. Ci diamo consigli vicendevolmente e ci guardiamo negli occhi, mentre faccio finta di verificare ancora i borsoni e in realtà, attraverso i loro occhi, scruto nel profondo dell’anima, violando ogni barriera e percependo tutto quello che hanno in mente e nel cuore. Leggo le mille cose non dette, sento il loro silenzio che urla il bisogno forte di volermi lì con loro, senza riuscire a mascherare granché il mio uguale desiderio.
Sanno che non posso, che ho un altro dovere, che il mio lavoro pretende disumanamente altro… Già… il mio lavoro… Quello di poliziotto nella sostanza e nei doveri, ma falsato e spacciato per quello di impiegato, tra il tappabuchi e il burocrate, nei diritti, nelle tutele e nella consapevole fallace considerazione di una ResPubblica aspra e malevola.
È ancora buio e in strada non c’è nessuno, quindi impiego giusto due minuti per imboccare l’autostrada, per andare dal luogo dove vivo a quello che mi permette di vivere e che mi ostino (sempre più disillusamente) a volere un po’ migliore, quasi in solitudine, quasi contro tutti.
Percorro l’autostrada ed i miei quotidiani 23 chilometri e mezzo. Calmo ed adrenalinico allo stesso tempo, guardandone con inusitata attenzione ognuno dei sette cavalcavia che, nel mio tratto, la sormontano. Scruto ogni eventuale lesione e valuto stabilità, con rudimentale improvvisazione ingegneristica. Vedo che sotto ogni cavalcavia ci sono già, o stanno per posizionarsi, i veicoli dei Vigili (Vigili del fuoco, ovviamente … chi altri possiamo indicare correttamente col bel nome di “vigili”?).
Sposto lo sguardo dall’Etna alla intera Terra che mi circonda e che considero ormai da tempo, soverchiamente, come patrigna, che non sento come luogo di cui rivendicare le radici, né come aria da respirare, né come vista di sole verso cui proiettarsi. Straniero, per quanto sia possibile, in una terra che comunque ti avvolge e ti possiede, spesso brutalmente.
Con questo turbinio di sentimenti scorre anche il tratto di strada provinciale che ormai conosco minuziosamente nei trentuno anni di quotidiana percorrenza. Solo l’arrivo nella piazza antistante il mio Comando di polizia (polizia locale), trancia i miei pensieri. Posteggio in un’area inconsueta per me, relativamente sicura perché distante da palazzi, pali, alberi e albero di natale che, nonostante luci e decorazioni, vedo in tutta la sua nudità.
In piazza, con uguale tristezza, emergono le prime luci dell’alba e stanno le prime persone… Un anziano che non ha più nessuno e che spesso mi si avvicina e con cui parlottiamo durante il mio servizio; un carabiniere in pensione, vecchio amico, che, memore delle sue abitudini e pur avendo smesso gli abiti che non smettono mai, è lì anche lui a presidiare i luoghi; un prete, anche lui mio buon amico, a dispetto di ogni facile e grossolana lettura delle mie opinioni in materia religiosa e sui rapporti tra “civitas” e diocesi. Proprio con quest’ultimo mi soffermo maggiormente. Forse perché in luogo della usuale forza vedo un certo scoramento, mentre il suo sguardo scorre tra la chiesa con nuove ferite tra le cicatrici ancor non chiuse di altri analoghi episodi, la statua sommitale rovinosamente infranta al suolo ed il nulla dello sguardo e forse dell’intero nostro essere cui ci consegniamo nei momenti di smarrimento.
Qualche parola, apparentemente di circostanza, ma invece sentita. Qualche informazione su come, cosa e quando … in quello che per altri è chiacchiericcio e che nel mio lavoro sono preziose informazioni, che fanno di me, di noi, il miglior servizio di intelligence immaginabile, il poliziotto di prossimità e di comunità, lo “sbirro” della porta accanto. Quello che (ben) altri poteri pubblici enunciano e proclamano, senza capire che è uno status che si acquisisce non con le campagne mediali, con le uniformi ad hoc e con le passerelle episodiche, ma con il vivere assieme, con la convivenza tra “divisa blu” e “comunità”, con il divenire “prossimi” senza diventare “contigui”, col rimanere “altro” senza “alterità”.
Si inizia un servizio non programmabile e senza grandi regole, al di fuori di quella della sopravvivenza. Si inizia. Senza sapere quando finirà.
Ai piedi dell’Etna, lì il 31 dicembre 2018
Ispettore capo Giovanni Iannello Leone
Mi trovavo li quella notte…a Zafferana Etena…. In licenza dalla lontana Lombardia…
Da siciliano e collega ringrazio infinitamente l’ispettore e tutti i colleghi che hanno risposta subito ad una emergenza del genere dove nessuno sa cosa aspettarsi e come reagire.
GRAZIE.
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