Cronaca · riflessioni

Guardie abbandonate: i suicidi nelle Forze di Polizia

Quello che sta per finire si rivelerà, probabilmente, un vero anno nero delle guardie: sono troppi, infatti, i colleghi che hanno scelto di togliersi la vita. Un numero crescente, un dato terribile, un male oscuro che nessuno ha mai voluto analizzare con la dovuta attenzione, tanto che le notizie sull’argomento sono frammentarie, spesso limitate ai soli giornali locali, ma le cifre sono spaventose: solo da novembre si parla di 4 agenti di Polizia Locale, 2 di Polizia Penitenziaria, un Carabiniere, un Finanziere ed una Guardia Giurata. E sono solo quelli che abbiamo potuto catalogare seguendo qualche social network.

Non esistono osservatori specifici, non esistono liste interforze, non esistono protocolli di supporto agli agenti che dovessero annunciare a colleghi o superiori il loro disagio: anzi, spesso le conseguenze di questa “confessione”, come vedremo di seguito, fanno perfino peggiorare le condizioni dell’operatore.

Parlando di Polizia di Stato si è passati dagli zero suicidi del 2006 e del 2007 ai 7 del 2014 fino ai 14 del 2015 – si ringrazia un collega per il dato – per la Polizia Locale si parla di 4 suicidi nel 2015 e ben 9 in questo 2016, 4 i morti nel 2014 anche per i Carabinieri, saliti a 9 nel 2015 dopo un picco di 12 nel 2013. Tragici anche i numeri relativi la Polizia Penitenziaria – 47 casi dal 2010 al 2015- e indicativi, anche se minori, nella Guardia di Finanza: ultimo caso, a Guidonia, il 15 dicembre, una Guardia Giurata.

Le fonti? Articoli, giornali, elenchi stillati da gruppi di categoria quali Caduti delle Forze dell’Ordine ed Il Fuori Coro, e, in primis, l’Osservatorio dell’Associazione Il Cerchio Blu, nata nel 2004 proprio per introdurre il supporto psicologico tra gli appartenenti alle Forze dell’Ordine. Osservatorio che tuttavia precisa che, nel raccogliere i tragici dati riportati nelle righe precedenti:

“[…] i dati in nostro possesso sono acquisiti dalle fonti aperte e quindi NON ufficiali.E’ molto probabile che i dati che raccogliamo siano in difetto rispetto ai dati effettivi dei suicidi degli appartenenti ai corpi di Polizia.Se prendiamo ad esempio i dati riferiti ai suicidi degli appartenenti all’Arma dei Carabinieri che emergono dai report ufficiali,  risultano ad esempio 22 casi di suicidio nell’Arma nell’anno 2010 contro gli 11 casi individuati dal nostro osservatorio, e 15 casi di suicidio nell’anno 2011 contro i 3 casi individuati dal nostro osservatorio. […]”

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Uno dei grafici dell’associazione Il Cerchio Blu

Sono numeri spaventosi e purtroppo ottimistici: pare infatti assodato che i casi reali, soprattutto se si considerano i tentativi fortunatamente non andati a buon fine, vanno ben oltre quanto Il Cerchio Blu o altre associazioni sono riuscite a  catalogare.

Perché succede questo? Le varie amministrazioni di appartenenza sono molto sollecite nel dichiarare che il gesto è dovuto a “problematiche esterne al lavoro” -cosa quasi sicuramente vera in alcuni casi come quello di Alfonso Russo, agente della Polizia Locale di Pagani suicidatosi sulla tomba del figlio – ma che certamente non può levare il fatto che la categoria delle Forze di Polizia (tutte) sia quella con la percentuale di suicidi più elevata in assoluto, ed i motivi non possono certo essere cercati in eventuali fallimenti imprenditoriali o particolari criticità economiche, stante che almeno da queste due realtà siamo relativamente al sicuro. La pista famigliare esiste – non rarissimi i casi di omicidio/suicidio che coinvolgono parenti – ma non si può negare che molti dei problemi famigliari degli appartenenti sono dovuti ai turni ed agli orari imposti dal lavoro, e vanno quindi ricompresi in quelle che chiameremo “turbative professionali”.

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La Polizia Penitenziaria è una delle forze più soggette a suicidi (nella foto il giuramento degli allievi agenti).

Le Turbative Professionali sono quello che ci portiamo dentro. Non è tanto quello che vediamo o subiamo, chi più chi meno, è tutto l’insieme di come viene vissuto, esternamente ed internamente, essere guardie. E’ sopravvivere ad aggressioni, è vedere giovani straziati in incidenti stradali, è dare le notizie ai parenti, è assistere impotenti a tragedie, è temere di venire incriminati per aver compiuto il proprio dovere, è essere costantemente sotto la lente di ingrandimento di politica, media e società, è, sostanzialmente,la somma di quelle esperienze che vanno a frustrare la vita degli appartenenti, ed a volte basta che uno di questi elementi sia più accentuato di altri per dare il via ad una catena di pensieri e di cedimenti che si ha paura di comunicare anche al proprio migliore amico.

Dalla paura di riferire al tenersi tutto dentro il passo per cadere nell’abisso del male oscuro è breve. A cosa si deve questa paura? Esiste ancora una sorta di “machismo latente”, in particolare in alcuni reparti e alcuni agenti “vecchio stampo”, che vedono di pessimo occhio la problematica psicologica e ritengono che confessarla sia la manifestazione di una debolezza che non vogliono assolutamente rivelare, ma sarebbe sbagliato dare la colpa a questa mentalità ormai in via d’estinzione. Quello che spaventa di più sono le conseguenze della sola “confessione”: spesso, anche senza aver visto uno psichiatra per valutare se si tratta di un pensiero fondato o di un momento limitato ad un suo contesto, l‘agente “depresso” si vede togliere l’arma di servizio e l’idoneità ai servizi esterni, per essere poi sbattuto in qualche ufficio secondario, lontano dal pubblico, e senza che tutto ciò sia accompagnato da un vero programma di recupero con lo scopo di farlo tornare quanto più velocemente possibile alla operatività iniziale: spesso, anzi, anche in caso di guarigione, il servizio non lo si vedrà mai più. Questo, oltre a portare un chiaro indebolimento economico – il lavoro esterno è meglio remunerato – ed in alcuni casi – in primis nella Polizia Locale- essere un vero e proprio viatico ad un trasferimento ad un servizio meramente amministrativo spogliato magari anche dalla divisa, fa sentire l’agente come rifiutato e tradito dalla realtà per cui ha sacrificato la sua vita, andando a peggiorare un quadro che magari si poteva recuperare, ed a quel punto sarà una corda, un treno o l’auto a fare ciò che non può più fare la pistola.

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I funerali di Rino Freda, della Polizia Municipale di Aversa, suicidatosi a febbraio 2016.

A me le Guardie chiede a gran voce un intervento questa volta non normativo, ma tutelativo, chiede che i colleghi in difficoltà non siano visti come appestati di cui imbarazzarsi, ma bensì come “feriti” da curare quanto prima e rimettere nel grande gioco, nel grande gruppo di coloro che hanno l’0nore di fare quello che, nonostante tutto, sono ancora convito che sia il più bel mestiere del mondo! 

 

Articolo dedicato a Rino Freda, Carlo Gilli, Francesco Semitaio, Alfonso Russo, Cataldo Grasso,  Elena di Martino, Aessandra Facchetti, Francesco Luise e tutte le Guardie che sono cadute vittime del male oscuro delle Forze di Polizia. 

Onori!

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4 pensieri riguardo “Guardie abbandonate: i suicidi nelle Forze di Polizia

  1. Non si può pensare di vivere senza soffrire.
    Chi non sa gestire il dolore può commettere errori fatali: rifugiarsi in alcool o droga, buttarsi a capofitto in religioni inumane o per fino suicidarsi.
    Un muratore non si suicida con un attrezzo del proprio lavoro, un poliziotto (o un diversamente poliziotto come un Vigile) può invece armare la Beretta, puntarsela alla tempia e porre fine a tutto.
    Difficilmente un muratore si toglie la vita, si alza tutti i giorni alle 6 per andare in cantiere dove, che ci sia neve o ci siano 40 gradi, con dei colleghi costruisce una casa; fa parte di una squadra, quasi sempre compatta, che fa un lavoro duro ma appagante. Tutte le volte che passa davanti ad un palazzo che ha realizzato vede il frutto del proprio lavoro.
    Ma il poliziotto? O il Vigile? Cosa racconta ai propri figli? Che se arresta uno per furto con scasso quasi certamente viene rimesso subito in libertà ? Che se viene offeso mentre sanziona un divieto di sosta deve star zitto perché è da solo, o da sola, e reagire non porta a nulla, visto che neanche l’ingiuria è più un reato?
    Può raccontare un Vigile che fa parte di una squadra compatra, quando un segretario comunale prende mediamente 100.000 euro all’anno mentre lui forse ne porta a casa 26.000? Quando per avere un turno migliore dei colleghi son disposti a screditarti?
    Quanto si può sentire a disagio un agente che sanziona un padre di famiglia perché non usa le cinture di sicurezza in auto mentre il Parlamento approva un decreto che promuove un condono tributario o accorcia la prescrizione?
    Puodarsi che gli interrogativi che un poliziotto si pone sul lavoro lo mettano in difficoltà e se non ha nulla nella vita privata a cui far riferimento vi sia il rischio che si ammali di depressione; malattia che spesso non ha chiari sintomi e che sempre non ha facili cure.
    Lo Stato non si occupa dei poliziotti depressi che si tolgono la vita, forse nemmeno i sindacati lo fanno seriamente.
    In alcuni comuni hanno risolto il problema, risparmiando anche risorse economiche per dotazioni, addestramento e visite mediche, disarmando i corpi o servizi di polizia locale. Poco importa se si svaluta il lavoro.
    Io credo che una soluzione sia quella di occuparsi ciascuno dei propri colleghi, superando se necessario piccoli malumori personali, e cercare di aiutare, anche dialogando con le famiglie, chi ci sembra avere delle difficoltà umane . Cosa fattibile nelle piccole realtà ma difficile nei grandi corpi.
    Buon lavoro e Buon Natale.

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